FORGING STEEL

FIDEI DEFENSOR

Metal Detektor - Southern Pride

I Metal Detektor sono tornati!!! Si, potrebbero bastare solamente queste poche parole per salutare il come back ufficiale della compagine calabrese in questione, che ripresenta ai nastri di partenza più convinta e desiderosa che mai, pronta a tuffarsi a testa bassa nella mischia con la consapevolezza, questa si, che nulla, per fortuna, è andato perso per sempre nonostante i tumulti dell'ultimo lustro coincisi con il cambio di label in favore della sempre più attiva Rude Awakening Records. E se la determinazione e la sagacia sono quelle di sempre, il versante compositivo attorno al quale si fomenta il nuovo “Pride and violence”, potrebbe benissimo rilanciare le quotazioni dei nostri in ambito prettamente classico e non solo, che sia questa la volta buona? Lo chiediamo al chitarrista/mentore Yuri Bernardini.
Intervista raccolta da: Beppe "HM" Diana


Ciao Yuri e benvenuto sulle nostre pagine, partiamo subito con il piede sull’acceleratore, come ci si sente alla vigilia dell’uscita di un nuovo parto discografico?

Ciao Beppe, pedal to the metal, giustissimo! Grazie mille per averci accolto a bordo, avevamo messo il piede sull’acceleratore in Battle of Daytona, il nostro precedente album e, in un certo senso.. lo abbiamo lasciato lì. La miccia del nuovo disco è stata finalmente accesa, noi siamo carichi a mille e non vediamo l’ora che esploda. Dopo mesi di lavoro, notti insonni, mille rotture e qualche maledizione, stiamo per lanciarlo. Abbiamo la sensazione di aver costruito un bulldozer con le chiavi inglesi del garage di casa e adesso stiamo per metterlo in moto. Che il motore parta lo diamo per scontato, che strada prenderà il mezzo è motivo di grande curiosità, aspettativa e tensione. Tensione positiva intendo!
 
Siete più soddisfatti perché avete portato a termine un nuovo viaggio, oppure perché finalmente si ritorna in carreggiata dopo tutto questo tempo?
Direi entrambe le cose. Portare a casa un disco, oggi come oggi, non è per nulla scontato. Ma la sensazione più forte è proprio quella di essere tornati davvero in carreggiata, con una band in forma, un’etichetta che crede in noi, e un sound che ci rappresenta al cento per cento. Se posso aggiungere un’alternativa, direi che siamo soprattutto soddisfatti del fatto che il nuovo album rappresenti un deciso passo in avanti in termini qualitativi. 
 
Quanta soddisfazione c’è essere contattati da una label come la Rude Awakening che ha nel suo roster band storiche del metal classico come gli inglesi Salem? Siete riusciti a contattare la band inglese per proporre loro uno scambio di date?
Intanto è stato uno schiaffo in faccia ai mille avvoltoi che ci avevano dati per finiti. Volate altrove, grazie. Poi sì, per noi è stato un bel segnale, sentirci scelti e supportati. Rude Awakening è una label vera, con una visione chiara e… nel roster ci sono i Salem, proprio un gioiellino di band: rispetto a noi hanno classe e una spiccata propensione melodica, noi siamo più caotici e diretti, probabilmente più heavy. Detto ciò sarebbe fenomenale suonare assieme e dato che vivo tra Italia e UK, non la vedo impossibile come cosa. 
 
“Violence and Pride” arriva a qualche anno di distanza dal precedente “The Battle of Daytona”. Anche se il vostro stile è inconfondibile, stavolta sembra esserci un passo avanti: vuoi parlarcene?
Sì, è proprio così. “The Battle of Daytona” era il nostro disco di ritorno, una dichiarazione d’intenti, una botta di energia ma in alcuni episodi molto poco controllata. “Violence and Pride” invece è più maturo, più compatto. Abbiamo fatto un lavoro di maggiore intensità sui pezzi, sugli arrangiamenti, sui suoni. Non volevamo cambiare stile (che senso avrebbe, poi?) ma farlo crescere, e crediamo che questo album lo dimostri.
 
In mezzo la release di un EP e un singolo. Questo dimostra quanto la band sia prolifica ultimamente… giusto?
Assolutamente. Dopo “Daytona” si è accesa una scintilla e non si è più spenta. La band ha trovato un equilibrio creativo davvero potente: idee che circolano, motivazione, voglia di scrivere. “Maximum Overdrive” e il singolo, in realtà tratto dall’album in uscita, sono stati lo sfogo naturale di quell’energia. E ci sono già nuovi brani sulla graticola , in attesa di essere arrangiati come si deve! Scriviamo di continuo, proviamo in maniera sistematica, discutiamo anche, ma tutto serve a far salire il livello. L’EP e il singolo sono serviti a tenerci caldi, ma anche a far capire che i Metal Detektor non sono tornati per nostalgia: siamo qui per lasciare il segno, ora.
 
Quali difficoltà avete affrontato durante la fase di registrazione? Avete avuto un produttore esterno o avete fatto tutto in casa?
Le difficoltà? Praticamente tutte quelle che puoi immaginare. Viviamo sparsi in quattro città diverse, ognuno con vite incasinate tra lavoro, famiglia, altri progetti musicali, e tutto il resto. Per questo ognuno ha registrato il proprio strumento dove gli veniva più comodo, con le persone di fiducia, senza perdere tempo a rincorrere una sala di ripresa unica che andasse bene per tutti. Una scelta obbligata, ma anche molto lucida. Poi ci siamo affidati a Chris Copat dei KK Recording Studios, che ha preso tutte le nostre tracce e le ha trasformate in un carro armato sonoro. Niente fronzoli, niente compromessi: lui ha capito subito cosa volevamo e ha tirato fuori il suono che ci rappresenta. È stato un lavoro a distanza, sì, ma con una direzione precisa, professionale e rabbiosa come serviva a un disco come Violence and Pride. Altro che “fare di necessità virtù”: abbiamo fatto di un problema un’arma.
 
Mettere d’accordo cinque teste calde come i Metal Detektor non dev’essere facile… mai sfiorato il limite di sopportazione?
Gli immancabili scazzi ci possono sempre essere ma alla fine le posizioni, da musicisti con la barba bianca che ne hanno viste di tutte sul palco e fuori, si allineano sull’obiettivo da raggiungere. La fase di arrangiamento è quella secondo me più delicata, quando a volte vedi cambiato il tuo riff o il tuo giro perché agli altri quattro torna meglio così …ti girano parecchio sul momento. Poi però scopri sempre che l’orecchio di quattro funziona meglio di quello di uno! Insomma alla fine prevale la fiducia nel gruppo sull’orgoglio personale. 
 
Anche se non è un concept album, le otto tracce sembrano avere un filo conduttore: la lotta. Ce ne parli?
“Violence and Pride” parla di conflitto, sì, ma non solo esterno. Ci sono le battaglie interiori, quelle contro i propri demoni, le sfide della vita quotidiana. Ogni brano tocca un aspetto diverso: il dolore, la forza, la rabbia, ma anche l’orgoglio e la speranza. È un disco umano, crudo, ma mai disperato.  Ogni pezzo è una storia di resistenza, di conflitto, ma anche di orgoglio e di identità. Parliamo di cadute, ma anche di chi si rialza. La “violenza” del titolo non è gratuita, è quella del vivere ogni giorno in un mondo storto. E l’orgoglio è l’unica armatura che ci resta. Non c’è un concept, vero, ma c’è un’anima comune in tutte le canzoni.
 
Come va letta la cover del disco, con il ritorno del mitico Johnny the Madness?
Johnny è diventato un po’ il nostro alter ego, il nostro portavoce. L’antieroe, l’ultimo a mollare. In copertina lo vedi lì, mezzo pazzo, ma pronto a fare a pezzi chiunque lo sfidi.  Ma non ha paura. È quasi contento. È lì, fiero, pronto al corpo a corpo. È l’incarnazione di ciò che raccontiamo: affrontare tutto senza tirarsi indietro. Ti ricordi quelle malfamate sale giochi degli anni ‘90 dove si fumava dentro e la rissa si accendeva per uno sguardo? La copertina nasce da uno di quei videogame, che compulsavamo perché i nemici avevano i nomi dei Guns’n’Roses e il jukebox mandava sempre gli WASP a tutto fuoco. 
  
La parola “pride”, orgoglio, sembra calzare a pennello col popolo calabrese. Che ne pensi? 
Domanda complicata: sono forse il meno titolato a rispondere in quanto calabrese …adottivo, diciamo così. Posso dirti però, da quello che ho vissuto quando vivevo laggiù e quello che ho studiato, nel medesimo momento, che i calabresi hanno un rapporto fortissimo con la loro terra, nel bene e nel male. È un orgoglio che non sempre viene capito da fuori. Ma è quello che ti fa rimanere in piedi anche quando tutto ti spinge a mollare.  
 
Negli ultimi trent’anni Cosenza ha dato i natali a tantissime band metal. Voi siete ancora on the road… come mai? Cosa vi ha fatto resistere? 
Nel 2008 abbiamo suonato come apertura per Pino Scotto. Ultimo live prima di una lunghissima, decennale pausa. Come vedi, quindi, anche noi non ce la siamo passata bene, come molte band dell’estremo sud. La scena cosentina, nonostante le difficoltà e la marginalità geografica, ha sempre avuto qualcosa di vero, di viscerale ma purtroppo anche di autoreferenziale. Anche al di fuori del metal, c’è sempre stata un mucchio di gente pronta all’arrembaggio coi suoi strumenti. Alcuni, è vero, hanno mollato. Noi siamo ancora attivi perché non sappiamo fare altrimenti, tutto qui. Sentivamo e sentiamo di avere ancora qualcosa da dire, a voce alta. E posso assicurarti che i membri delle band che hai menzionato in un’incarnazione o un’altra sono ancora in giro a fare danni.  Come vedi l’orgoglio (o la testardaggine) di cui parlavamo prima a volte ha effetti positivi e duraturi…
 
Negli ultimi anni, tra social e piattaforme, è più facile farsi sentire… ma portare la gente ai live è sempre più difficile. Non ti sembra un paradosso?
Lo è eccome. Oggi puoi arrivare in Argentina e Giappone con un click (è accaduto con Detecting Metal nel 2002) ma poi fatichi a portare 50 persone a un concerto sotto casa. È il paradosso dell’epoca dell’abbondanza: puoi avere tutto, subito e quasi sempre gratis, ma non ti muovi dal fottuto divano. Oggi una band come la nostra può essere ascoltata in Messico, in Polonia o in Cina, e questo è ottimo. Poi però al locale dietro la sala dove provi non viene a sentirti che un manipolo di fedelissimi. 
Sai qual è il problema vero? L’illusione di partecipare senza esserci. Basta un like, un commento e ti senti parte di una scena. Ma noi facciamo Heavy Metal, non siamo puttanelle virtuali che mostrano il culo per ingolosirti e poi spariscono.  In questo genere ti ci devi immergere. Devi lasciare il telefono in tasca e farti investire dai watt, dal sudore, dalle imperfezioni vere. E oggi questo spaventa. Troppa gente è abituata alla fruizione passiva, al prodotto impacchettato e infiocchettato. Il concerto invece è carne viva. E fa paura. Noi continuiamo a crederci perché veniamo da lì, ci siamo formati davanti a palchi improvvisati, in cantine, in motoraduni, in locali vuoti con l’odore di muffa e amplificatori gracchianti perché non c’è la terra. Ma è lì che impari a colpire. Quindi sì, è un paradosso. Ma è anche una selezione naturale. Chi viene ai live oggi… è gente con le palle, autentica.
 
E sull’uso della tecnologia nella musica? Autotune, AI… come la vedi?
Se sei veramente in gamba puoi anche avere un qualche genere di vantaggio da alcune applicazioni: puoi farti per esempio accompagnare da musicisti virtuali in composizione e arrangiamento o puoi accordare una corda calante dopo aver eseguito un bending troppo aggressivo, o ancora sostituire il suono del tuo tom con un altro più valido mantenendo però la tua personale dinamica dei colpi. Appena vai oltre iniziano i problemi, anche etici secondo me. Per quanto riguarda l’Autotune sulla voce… è semplice: Vuoi un prodotto mediocre? Usa pure quella roba. Stai sostituendo il tuo timbro e la tua personalità con una imitazione più performante nell’eseguire… algoritmi. Cioè in pratica, Autotune ha rovinato il senso stesso della voce. L’AI usata per scrivere o cantare canzoni è invece il disastro assoluto: non è altro l’ennesimo modo per togliere umanità alla musica. La verità è che fa comodo: costa meno, sbaglia meno, ma dice anche zero. Eppure in questo mondo di plastica e digitale buona parte dei cataloghi musicali, negli ultimi 2 anni , è costituita da tracce prodotte interamente da queste tecnologie. E le competenze per distinguere cosa è suonato da persone in carne e ossa dalle deiezioni di una AI pilotata da un nerd obeso e annoiato sono sempre più stramaledettamente rare. Ci vuole il bollino AI-Free! 

Che effetto fa vedere il proprio disco nello scaffale accanto ai mostri sacri?
Tanti anni fa siamo apparsi su Rolling Stone Italia (assurdo, non avevamo nemmeno un etichetta) a fianco dei Metallica (tutto vero) perché il giornalista stava spiegando il funzionamento della piattaforma MySpace, a cui eravamo iscritti da pochi giorni. Il senso dell’articolo? Proprio al contrario dei Metallica eravamo la band con il minor numero di ascoltatori in Italia! La pubblicità negativa non influenzò la band anche perché nessun metallaro che si rispetti legge quella rivista, per fortuna. Ora, venendo più direttamente alla tua domanda, il fatto di avere la parola “metal” nel nome della band in realtà è uno svantaggio enorme, perché il termine è inflazionatissimo, anche se apparire nei cataloghi subito dopo i Metal Church è veramente tanta roba! Ci siamo ispirati a una disavventura occorsa a J. P. Hell, il nostro primo cantante, che avrebbe voluto avere in mano un cazzo di metal detector in un negozio di dischi, privo evidentemente di vinili adeguati ai suoi gusti musicali. 
  
Quali sono i prossimi passi per la band?
Intanto si parte dalla Calabria, perché è lì che batte il cuore del nostro pubblico storico. Quelli che ci seguono dai primi anni, quelli che sanno cosa vuol dire vedere i Metal Detektor in un club sudato, sotto a un palco senza barriere. Abbiamo bisogno di sentire quell’energia per davvero, non attraverso uno schermo. Parallelamente vorremmo valutare con l’etichetta la possibilità di portare il disco anche fuori regione o in UK, giocando la carta Salem!  In più, c’è una tentazione che ci ronza in testa da un po’: risuonare alcuni classici dei primissimi anni, come Motorcycle Beast, magari coinvolgendo gli altri due membri della formazione originale come ospiti speciali. Non per fare la reunion nostalgica da “una volta era meglio”, ma per dare a quei pezzi il suono che meritano oggi, con la consapevolezza di adesso e la rabbia di allora. Insomma, non ci stiamo sedendo su niente. Il disco non è nemmeno uscito, ma già guardiamo avanti.
 
Ok, siamo alla fine, ti lascio spazio per i saluti di rito.
Grazie ancora per l’intervista e per il supporto sincero. Un saluto a tutti i lettori, a chi ci segue da anni e a chi ci sta scoprendo solo ora. Grazie a chi supporta, a chi ci ascolta, a chi verrà ai live anche in mezzo a mille casini, con orgoglio e violenza… ma non troppa!

Yuri Bernardini
METAL DETEKTOR
Detecting Metal since 2002

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