Speciale: NECROMANDUS


I secondi Black Sabbath, no, i padri del doom, meglio ancora, una delle prime heavy metal band della storia!!!  Tutte frasi, pensieri, preconcetti di sorta, che non riescono a mitigare quell'amaro in bocca “del poteva essere, ma non è stato”, riferito ai trascorsi artistici di una band che non è riuscita a superare indenne il traguardo dell'album di debutto, facendo i conti con un destino avverso, lasciando ai posteri, come unica testimonianza, un disco che, nonostante sia rimasto a marcire negli archivi di qualche scantinato ammuffito per tanti, troppi anni, riesce ugualmente a fotografare le potenzialità, enormi, di un manipolo di ottimi musicisti che, sicuramente, avrebbero meritato migliori fortune.

Articolo a cura di: Beppe Diana


Gli inizi...
Il primo nucleo della band band si forma sul finire degli anni sessanta, il 1967 per la precisione, nel West Cumberland, contea storica situata nel nord  dell'Inghilterra, dall'unione sinergica di alcuni elementi provenienti da due formazioni locali, gli Jug e gli Heaven, e vede coinvolti nella line up ufficiale, rimasta inalterata sino alla fine, il chitarrista Barry "Baz" Dunnery, la sezione ritmica formata da Dennis McCarten al basso, e Frank Hall alla batteria, ed il talentuoso singer Bill Branch, i quali, con il monicker di Hot Spring Water prima, e Taurus poi, pongono le basi per quella miscela sonora che caratterizzerà la maggior parte delle loro composizioni, nella quale fluisce una certa vena progressiva, ed elementi che arrivano in egual misura tanto da una scuola proto-hard rock, che dal blues primigenio.
Il nuovo nome Necromandus, adattamento di Necromancer, arriva in maniera del tutto “casuale” ed esplicita, grazie ad un programma radiofonico dell'epoca, l'Heavy Pressure della BBC1,  nel quel è lo stesso speacker radiofonico a spingere gli ascoltatori a trovare il nuovo monicker della band, lasciandoli “suggestionare” dalla loro musica.
Con il passare dei mesi, le attività dal vivo si moltiplicano, con la band che, siamo già nel 1971, è riuscita a spostare il proprio raggio d'azione dalla nativa contea d'origine, alle città più rinomate della parte settentrionale della vecchia Albione, suonando in vari contesti, sempre in compagnia di giovani formazioni dell'epoca come gli Orphan, i Bulldozer e gli, allora poco conosciuti, Judas Priest.
Ed è proprio durante una delle date a Birmingham di supporto ai Black Sabbath, che il maestro Tony Iommi si decide d'offrire loro il suo supporto, e li scrittura per la sua agenzia di management “Tramp”, grazie alla quale i nostri riescono a registrare alcuni provini negli Zella Studio di Edgbaston che, solo qualche mese più tardi, gli varranno la firma per un deal con la prestigiosa Vertigo.



Il disco....
“Orexis of Death”, questo il titolo scelto dai quattro, viene addirittura registrato nei prestigiosi Morgans Studio di Londra, sotto la supervisione dello stesso man in black e, ad un attento ed accurato ascolto, risulta essere un lavoro maturo e, per certi versi, ambizioso, che si contraddistingue per l'enorme qualità tecnico/didattica, con una compagine che riesce a manipolare, come creta in abili mani, un versante compositivo pregno di inebrianti partiture, che si amplifica attorno a perle di rara bellezza come “A black solitude”, brano dalle atmosfere magniloquenti
giocato fra ricami progressivi e contrappunti jazz rock, la duttile “Still born beauty”, dotata di un fascino arcano, l'oscura e tetra "Nightjar", una cavalcata elettrica, con lo stesso Iommi che si ritaglia una parte da leone grazie ad un magnifico solo di chitarra, o ancora il ritmo sincopato di “Homicidal Psycopath" dallo swing irresistibile, e l'affascinante title track.
Brani che, nonostante il rough-mix del master, riescono, con vigore, a sottolineare la prova maiuscola dei Necromandus che “suonano come i Black Sabbath alle prese con il greatest hits degli Yes”, come lo stesso Melody Maker ebbe a sottolineare in più di un'occasione.
La band si imbarca nel tour di supporto agli stessi Sabbath dell'epoca "Vol. 4", e suona nell'agosto al Kendal Rock Festival, in compagnia dei Groundhogs, mentre riesce a fare addirittura il sold out nella data del Whitehaven Civic Hall suonando addirittura da headliner.
Ma quando la band sembrava oramai lanciata verso il riconoscimento di massa, con il disco in procinto di pubblicazione, schedulato per l'inverno del 1973, viene letteralmente trasportata nell'occhio del ciclone da vicende ed accadimenti fino ad allora impensabili.
Quello è l'anno di uscita di “Sabbath bloody Sabbath”, la band di Birmingham si è quasi definitivamente trasferita negli States, nello specifico a Los Angeles, per la stesura e le registrazioni di un disco, per certi versi controverso, sicuramente il più progressivo mai pubblicato, per cui gli impegni dello stesso mentore dei Necromandus si sono moltiplicati vistosamente.
Ma, sebbene sia lo stesso Iommi a rinfrancare più volte la band sui termini per il missaggio del disco, e sulla relativa pubblicazione, è proprio la chiusura della Tramp agency a porre fine alle velleità artistiche del gruppo.
Infatti, sarà lo stesso chitarrista della band  Baz Dunnery a chiamarsi fuori dal gruppo, demotivato da questa posizione di stallo e dal tira e molla più volte paventato, deciso più che mai ad intraprendere altri percorsi musicali.



L'epilogo...
Senza l'apporto musicale, compositivo e creativo del vero pezzo da novanta, la band comincia a barcollare nel buio e a sfaldarsi come neve al sole, infatti, nonostante la promessa di trovare un altro chitarrista all'altezza, “Orexis of Death” viene accantonato dalla stessa Vertigo, ed il gruppo si scioglie.
Ritroveremo lo stesso Dunnery, assieme al batterista Frank Hall, nella prima incarnazione dei Blizzard of Ozz dell'enigmatico Ozzy Osbourne, ancora prima di Randy Rhoads a quanto pare, progetto naufragato dopo il ritorno del singer in forza alla band madre. Nonostante gli attestati di stima gli arrivino da artisti del calibro di Steve Howe e dallo stesso Glenn Huges, il buon Baz prenderà parte al progetto da studio denominato Violinski, messo insieme a componenti degli E.L.O., ed autori di tre dischi più che buoni.
Ci vorranno più di trent'anni prima che il disco riveda la luce del giorno, ovvero quando nel 2005 l'etichetta specializzata Audio Archives, recuperi gran parte del materiale su bobina della band, e pubblichi non uno, ma ben tre cd, lo stesso lp con l'aggiunta di due bonus track, la raccolta “Necrothology” che riprende le sessioni di registrazioni svoltesi agli Zella Studio, ed un live cd, registrato in una delle ultime date del marzo del 1973 al The Casino di Blackpool, quest'ultimo dedicato alla memoria del cantante  Bill Branch e del bassista Dennis McCarten prematuramente scomparsi prima della pubblicazione postuma.
Una band che avrebbe meritato di più ma che, purtroppo, non ha avuto fortuna, lasciando, oltre ad un grandissimo disco, sicuramente da riscoprire, un grande, grandissimo quesito, e se veramente Tony Iommi avesse intravisto nelle band quelle qualità peculiari per cui l'uscita di quel disco avrebbe potuto offuscare anche gli stessi Black Sabbath?

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