Vanexa - Back From The Ruins


Genere: Heavy Metal
Anno di pubblicazione: 1988
Etichetta: Minotauro Rec.
 

Line up:
Marco Spinelli – voce
Roby Merlone – chitarra
Silvano “Syl” Bottari – batteria
Sergio Pagnacco – basso


Non facciamo finta di niente nascondendoci dietro ad un dito, o a quelle mezze frasi di circostanza che tendono sempre e comunque a negare le realtà di fatto, in Italia non è mai stato facile essere una heavy metal band, non lo è oggigiorno che i locali e le infrastrutture si sono moltiplicate, e non lo era di certo negli anni ottanta quando i giornali d’oltralpe facevano a gara a prenderci per il culo, o a farsi beffe di noi poveri illusi che credevamo che bastasse solo un chiodo di pelle e la faccia cattiva per essere dei veri metallari, che pensavamo bastasse credere nei nostri ideali per combattere sentimenti avversi come il pregiudizio e l’inaffidabilità, poveri illusi…
Quante volte in tutti questi anni ho letto di sogni di giovani musicisti infranti contro il muro dell’indifferenza e della scarsa professionalità regnante all’epoca in territorio discografico italiano, di treni persi all’ultimo istante, di giri di boa naufragati inspiegabilmente nel mare dell’oblio, quante volte….
“Se c’era una band che avrebbe dovuto avere successo in quegli anni, questi erano i Vanexa”, ecco cosa mi sono sentito ripetere più volte in tutti questi anni, un pensiero espresso non da indomabili nostalgici come il sottoscritto, ma da chi, molti musicisti dell’epoca, ha più volte condiviso lo stesso palco con questa inossidabile formazione ligure.
Se non la prima, sicuramente una delle prime formazioni tricolori a registrare un album di heavy metal puro ed incontaminato, purtroppo i Vanexa sono, o forse saranno, ricordati dai giovani metal ignoranti, ignorante è anche chi ignora, solo per essere stati la prima band del giovane Rob Tyrant, vocalist divenuto popolare per il suo trascorso in seno ai Labyrinth, si il massimo dell’apoteosi, roba da far accapponare la pelle e far drizzare i capelli, e non solo quelli!!
Meno male che chi ha vissuto quegli anni sulla propria pelle, si ricorderà di certo che i Vanexa sono quelli a cui i Saxon rubarono una canzone, poi pubblicata dai metal gods sul, comunque, deragliante “Denim and leather” nel lontano 1981.
Degli autentici capostipiti dunque, altro che cazzi, formatisi in un periodo in cui suonare heavy metal significava sacrificio, sudore, anima e cuore, essere anticonformisti, sentirsi comunque parte di un’unica grande famiglia che non faceva distinzioni di sorta, non come capita ultimamente…
Ma si sa, i pionieri, quelli che aprono le strade alle nuove generazioni, vengono spesso dimenticati e messi inspiegabilmente da parte, anche se, è bene ribadirlo, le loro opere resteranno per sempre a testimoniare un’epoca che fu.
Anche se molti considerano il primo omonimo “Vanexa” come il miglior disco dei nostri, personalmente ho sempre posto più attenzione al loro secondo capitolo“Back from the ruins”, non so, forse perché di più facile reperibilità, anche perché prima della ristampa in cd, il loro omonimo disco era alla portata di pochi eletti, o anche perché lo ritengo sicuramente più maturo sia a livello di songwriting che di esecuzione, e il successo che lo stesso ebbe nell’anno della sua uscita, non fa che confermare in parte le mie parole.
Già, il disco vide la luce nel lontano 1988 sotto l’appoggio della coraggiosissima Minotauro records, quattro anni dopo il già citato album omonimo, dopo che la band aveva attraversato un lungo periodo di stasi compositiva, che all’epoca fu spiegato con un non preciso problema organizzativo, ricordo che il cantante Marco Spinelli era di Pavia, mentre il resto della band risiedeva a Savona.
Prodotto egregiamente dalla stessa band e dal loro manager Rocco Fiore, già al lavoro sul debut, “Back from the ruins” si presenta nella sua splendida confezione apribile, il buon Marco Melzi ha sempre fatto le cose alla grande, non c’è che dire, sormontato da quella splendida cover ad opera di Fulvio Zacco, mentre ben otto sono i brani che vanno a comporre questo piccolo capolavoro d’arte metallica che consiglierei vivamente di andare a recuperare per capire in qualche modo che cos’era l’heavy metal in quegli anni. Spetta alla dinamitarda “Midnight wolves” aprire le danze, un insostenibile tour de force fra accelerazioni speed metal e parti più lisergiche contornate da uno splendido lavoro di guitar working ad opera del grande Roby Merlone, d’altronde lo spettro dei vari Graham Olivier e Paul Quinn, aleggiava sempre inquieto, sul quale si stagliano le urla indemoniate del giovane leone Marco Spinelli all’epoca paragonato più volte a mr Rob Halford, ascoltate i suoi acuti udibili sulla successiva “Blood money”, e poi ne riparliamo, un vivace mid tempo dal sapore vagamente new wave, soprattutto per quei continui riferimenti a Tygers of Pan Tang, Prying Manties e ancora Saxon in particolar modo.
Un delicato arpeggio ci porta al cospetto dell’oscura “Creation” una song atmosferica dominata da una sezione ritmica pulsante e quadrata formata dal batterista Silvano “Syl” Bottari e dal bassista Sergio Pagnacco, caratterizzata da lunghe parti strumentali e da un solo dal vago sapore gusto blusey che ne impreziosisce quel sapore vagamente mistico, mentre “It’s over”, alla quale tocca chiudere il alto A del disco, è ancora grande colata di metallo incandescente fra velocità sostenute, riffing penetranti come lame d’acciaio nella carne, e stop and go davvero mozzafiato, che ne fanno una delle migliori composizioni di tutto il platter.
Molto più intricata e strutturalmente indomabile “Hanged man”, con una band completamente sugli scudi che ci stupisce con la sua carica dirompente di metallo allo stato puro, per poi spiazzarci totalmente sulle note della toccante “Night rain on the ruins” una ballad un po’ fuori dai soliti schemi, che sei anni più tardi sarà ripresa sull’album del come back, impreziosita dalla toccante ed intensa interpretazione di un Marco Spinelli in grado di emozionare con la sua voce sofferta ed angosciante, che da solo vale l’acquisto del disco stesso.
Prima del giro finale, è ancora l’ora di un classico brano heavy rock come “We all we die”, ideale connubio di sonorità hard’n’heavy di estrapolazione nord europea, Torch/Maltese Falcon per intenderci, che sembra studiata apposta per le prestazioni live della band, prima che il frenetico ritmo hard boogie, quasi alla prima Ac/Dc, di “Hiroshima” sancisca la parola fine per questo stupendo album di metal tricolore. Come detto poc’anzi, il popolo metallico italiano attribuì il giusto successo ai nostri, che nelle poll di fine anno si contesero la palma di miglior prodotto heavy metal dell’anno con gli acclamati “Rock and roll prisioners” della Strana, e “Black Mass” dei Death SS, anche se questo successo non potè porre rimedio allo split che di li a poco coinvolse i nostri, si vociferò dell’abbandono da parte dello screamer Marco Spinelli che voleva, nel suo piccolo, portare i Vanexa ad un livello professionistico che allora, come d’altronde oggi, sembrava davvero una mera illusione.
Nel 1994 i Vanexa tentano il rientro sulle scene con l’album “Aganist the sun”, con una formazione in parte rimaneggiata, poi ancora una pausa forzata fino al rientro definitivo con “To heavy to fly” eduna ritrovata verve compositiva che li ha condotti, nel 2021, alla pubblicazione dello splendido “The last in Black”.
Detto che “Back from the ruins” è stato ristampato negli ultimi mesi sia in formato lp che in cd, con l'aggiunta di ben cinque bonus track live dell'epoca, per cui se lo vedete in qualche mercatino compratelo perché sono sicuro che non vi deluderà, fidatevi...
P.S. Dedicata a Roby Merlone ovunque tu sia fratello...

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