Spitfire - Time and Eternity


 Monumentale intervista intercorsa con Stefano Pisani, granitico chitarrista degli Spitfire, per parlare delle tappe fondamentali dell'esistenza artistica della storica formazione veronese artefice nella prima metà degli anni ottanta, di alcune release ufficiali, come il 7” “Blade Runner”, edito dall'allora attiva Minotauro Records, veramente degne di nota, che presentavano una formazione alle prese con un heavy metal di stampo tacitamente classico, memore delle lezioni impartite dai maestri inglesi dell'epoca, che le avevano permesso di affrontare molteplici esperienze, soprattutto sul versante live, facendo presupporre per un futuro più che lungimirante che, invece, si tramutò in cocente delusione. Ci sono voluti ben tre lustri prima che il nome della band tornasse alla ribalta, grazie all'intraprendente lavoro della Andromeda Relix prima, e della My Graveyard Production poi..... 

Intervista a cura di: Beppe "HM" Diana

Ciao Stefano, benvenuto sulle nostre pagine e grazie per la pazienza e la disponibilità, la prima domanda d’obbligo, come e in che occasione entrasti a far parte degli SPITFIRE? È vero che la primissima formazione della band prevedeva la presenza di due chitarre?
Ciao caro Beppe, e grazie a te per questa intervista e per il costante supporto a noi e a tutte le realtà indipendenti.
Allora, SPITFIRE nasce nel 1981, e nel primo anno di vita si dedicava - giusto per divertimento e rodaggio - a un repertorio di cover (Black Sabbath, Scorpions, AC/DC, Kiss, Iron Maiden, Thin Lizzy, UFO, Saxon, ecc.). Io e Giacomo Gigantelli avevamo avuto occasione di vederli dal vivo a una manifestazione, ma tutto finì lì; noi volevamo procedere con il nostro progetto musicale di allora, perché eravamo assolutamente decisi a fare parte del movimento rock che anche nella nostra città stava per subire drastici cambiamenti, con la ventata d’aria nuova portata dalla NWOBHM.
Poi - nell’estate 1982 - casualmente incontrammo Gaetano Avino e Paolo Martelli, rispettivamente batterista e bassista degli SPIT che - avendo notato il nostro abbigliamento “denim & leather”, i bracciali, le borchie, nastri di mitragliatrice alla Motorhead e tutto il resto - ci chiesero se suonavamo qualche strumento e se volevamo fare una prova con la loro band, perché stavano cercando un nuovo chitarrista e un nuovo cantante, per cominciare a produrre pezzi originali..
Così ci conoscemmo, facemmo quella prova insieme, e così nacque la prima formazione ufficiale degli SPITFIRE: Giacomo Gigantelli alla voce, Gaetano Avino alla batteria, Paolo Martelli al basso, e alle due chitarre Massimo Cazzoli e io. Le due chitarre erano d’obbligo, visto che allora tutti noi seguivamo con passione gli ultimi album dall’Inghilterra: Judas Priest, Thin Lizzy, Tygers of Pan Tang, Def Leppard, Saxon, Iron Maiden!

Qual era l’atmosfera che si respirava all’epoca nella quieta Verona che, a dispetto di come si possa pensare, aveva una scena musicale davvero niente male?

Verona non era proprio una zona quieta, anzi. Socialmente era un brutto periodo, i cui ingredienti (terrorismo, criminalità di periferia, violenze e scontri tra fazioni politiche, presenza massiccia di militari, molti dei quali americani, moltissima droga) hanno sicuramente influito nella nostra formazione musicale e personale. C’era anche della buona musica in giro: ricordo un po’ di band che portavano avanti l’eredità hard rock degli anni ’70, e una nutrita schiera di gruppi punk. Però ancora nessuno aveva portato sul palco il metal! Questa era la nostra direzione, e tutti i nostri sforzi furono fatti per quello scopo. Noi ci davamo dentro in sala prove, con strumenti a dir poco imbarazzanti, inventandoci i luoghi dove suonare dal vivo, cercando di assimilare il più possibile tecniche musicali che in noi ancora erano acerbe (d’altronde avevamo un’età media di 16-17 anni). E ovviamente, in una città perbenista e bigotta come Verona, eravamo additati come tossici, sbandati, delinquenti, capelloni, poco di buono, e come conseguenza eravamo anche uno degli obiettivi preferiti per i controlli delle guardie. Insomma ci siamo fatti le ossa - come tutti i gruppi della NWOIHM - in un periodo e con modalità che probabilmente ci hanno dato una grande forza… e i risultati si vedono ancora oggi!

Il primo step discografico ufficiale della band risale addirittura al 1982, una demo di tre brani che presenta una copertina abbastanza fumettistica, e un approccio alla forma/canzone ben delineato, sintomo questo che ci fa capire quanto la band fosse matura per l’epoca…
Con il nostro arrivo nella line-up, gli SPITFIRE cominciarono subito un grande lavoro di composizione di pezzi originali: avevamo milioni di idee, eravamo giovani, volevamo urlare la nostra rabbia al mondo, meglio ancora se da sopra un palco; potevi sentire l’energia che scaldava la sala prove, spesso c’era talmente tanta gente (amici, curiosi, metallari, di tutto) che si faceva perfino fatica a concentrarsi sulle nostre cose. Quindi il passo naturale fu che appena individuammo un po’ di canzoni che ci sembravano adeguate, si registrò il primo demo (in presa diretta dal vivo). L’inesperienza trapela da tutto: dal disegno di copertina (tra l’altro non “ufficiale”), dal fatto che non gli demmo nemmeno un titolo, i pezzi erano quello che erano (immediati e per noi affascinanti, ma tecnicamente piuttosto carenti), per non parlare delle tecniche di registrazione! La nostra forza allora era la determinazione e la voglia di fare: le capacità tecniche sarebbero venute col tempo e l’esperienza; qualcuno in grado di registrare il metal prima o poi sarebbe arrivato… In quei mesi febbrili non avevamo tempo né voglia di aspettare, dovevamo assolutamente dare voce a quello che premeva da dentro. Più che maturità forse ci contraddistinse un modo di comporre la nostra musica che fu molto influenzato da quello degli Iron Maiden, una specie di metal dalle tinte epiche che voleva andare oltre il classico riff sostenuto dal basso mononota; volevamo osare, a volte senza nemmeno aver la tecnica necessaria, ma comunque con la chiara idea di vivere fino in fondo l’esperienza illuminante dell’heavy metal, come poteva vederla e viverla allora un ragazzino di 17 anni. Inoltre la realtà che ci stava attorno ci portava a scrivere non solo di draghi, guerrieri, leggende, ma volevamo dire qualcosa anche sulla droga, sull’ingiustizia sociale, sulla vita di periferia.

Gianni Della Cioppa mi ha raccontato che la vera dimensione della band era quella live, e che proprio sopra un palco la band raggiungeva il suo climax ideale, tu che cosa mi dici?
Sì, in effetti era sul palco che davamo il meglio di noi stessi; era lì che si sprigionava tutta l’energia, la rabbia e la determinazione che avevamo (e abbiamo tuttora!) dentro.
D’altronde dovevano passare ancora molti anni prima che si potesse avere una registrazione in studio decente. Purtroppo gli studi di incisione in Italia hanno molto faticato a mettersi al passo coi tempi in materia di rock… non parliamo poi di heavy metal! Tutte le band italiane di fine anni ’70 e primi anni ’80 hanno dovuto combattere mille battaglie, e una di queste è stata anche quella di poter trovare qualche tecnico del suono che avesse un minimo di cultura rock per poter rendere al meglio ciò che c’era nelle nostre teste, nei nostri cuori e nei nostri strumenti.
Per assurdo sembra quasi che le buone tecniche d’incisione utilizzate al tempo dei grandi gruppi rock italiani dei primi anni ’70 (Biglietto per l’inferno, Balletto di bronzo, Rovescio della medaglia, ecc.) fossero state dimenticate, cancellate, come per coprire con un velo un brutto periodo dell’Italia insieme con le band che lo rappresentarono.
Evidentemente stavamo muovendo i nostri primi passi proprio nel momento in cui il rock veniva purtroppo - e molto superficialmente - accostato ad altre situazioni negative che poco avevano a che fare con la musica e con chi voleva suonare.

Fu proprio il successo di quel demo che vi spinse verso l’allora misconosciuta Minotauro Records per l'incisione dell'altrettanto valido 7” "Blade Runner"…
Quel primo demo ci servì per farci conoscere a livello nazionale, e il passo successivo fu naturalmente il tentativo di fare un salto di qualità.
Così incidemmo due pezzi nuovissimi (“Blade Runner” e “A Quiet Man”) in uno studio di Verona che ovviamente non riuscì a tirare fuori il suono che volevamo… anche noi eravamo inesperti e comunque non c’era molta scelta.
In ogni modo la voglia di fare ci ha portato e ci spinge ancora ad andare avanti senza troppe paranoie. I pezzi erano freschi di composizione e già denotavano una certa maturazione dal punto di vista stilistico; inoltre la formazione era già cambiata: avevamo perso il bassista e un chitarrista, subito sostituiti dal Giga che oltre a cantare suonava anche il basso (egregiamente, visto che era il suo strumento originario), e da Stefano Bianchini, proveniente dai concittadini Black Hole. Era stata una scrematura molto naturale, nel senso che coloro i quali non credevano al 100% negli SPITFIRE si sono sempre allontanati senza traumi, mentre il gruppo ha sempre avuto la forza di andare avanti, perché l’idea su cui si basava (come oggi) era forte e nitida.

Ma è vero che fu proprio quel 7” a inaugurare le uscite discografiche della label?
Con la cassettina dei due brani, negli ultimi mesi del 1983 facemmo un vero tour de force per trovare un’etichetta disposta a produrci; andammo a Milano (chi ha la nostra età ricorderà sicuramente il Transex vicino a Piazza Duomo, dove si poteva entrare in contatto con alcune etichette locali), Bologna, Brescia e alla fine approdammo a Pavia da Marco Melzi, che aveva intenzione di fondare una sua etichetta, la Minotauro Records.
E in effetti noi fummo la sua prima produzione discografica. Ancora con questa realizzazione si nota l’inesperienza di “ragazzi di provincia”: il 45gg ha una copertina che - nel bene e nel male - sicuramente è rimasta impressa a molti (eufemisticamente per noi è “naif”, per altri è “un disegno da bambino dell’asilo” - ha ha ha - in ogni modo quel 45 ha avuto un grande successo, anche a livello di collezionismo, tanto che nel 2009 la Minotauro l’ha ristampato).
Devo dire che siamo molto affezionati a questo dischetto, che è stato anche protagonista di vicende veramente bizzarre: pensa che è stato perfino inserito - credo per errore, ma che onore! - in una enciclopedia dei singoli di tutti i gruppi INGLESI della NWOBHM!

All’epoca la band venne più volte paragonata alla risposta italiana della vergine di ferro per antonomasia; ma questo raffronto era per voi più uno stimolo, oppure lo vedevate come una zavorra che vi dovevate portare addosso?
In realtà, come dicevo prima, dagli Iron avevamo ereditato uno stile compositivo particolare, abbastanza inedito nel mondo del metal come evoluzione dell’hard rock anni ’70.
Però poi i risultati non erano poi così affini ai Maiden: certamente per noi erano un faro luminoso, insieme a Ronnie James Dio, Ozzy, Motorhead, Judas Priest, ma sentivamo moltissime affinità con altri gruppi metal “minori” come Tank, Fist, Jaguar, More, Satan, Tokyo Blade. Comunque non ci sentivamo influenzati da ciò che si diceva di noi, siamo sempre stati abbastanza forti da proseguire sulla nostra strada senza lasciarci fuorviare più di tanto da giudizi o pressioni esterne.

Ed è proprio grazie al successo inatteso di quel periodo che la band si imbarca in una sorta di tour itinerante che tocca le città più importanti dello stivale e che vi vede di spalla agli allora giovani Vanadium; che concerto ricordi con particolare emozione?
Insieme alla Minotauro. organizzammo un bel tour promozionale che ci portò in giro in tutt’Italia e che ci servì tantissimo per migliorare a livello di esperienza di gruppo.
Fu un periodo bellissimo, in cui tutto ciò che avevamo sognato solo pochi mesi prima si stava avverando, e anche in quest’avventura mettemmo tutti noi stessi e tutte le nostre energie.
E fummo premiati, perché ottenemmo tantissime soddisfazioni, compreso dividere il palco con Strana Officina e Vanadium all’HM Festival di Napoli (giugno 1984). Tutti i concerti furono memorabili, esperienze indimenticabili che non saranno mai cancellate: l’entusiasmo del pubblico che cantava le nostre canzoni, le maree di pogo selvaggio che a volte (soprattutto quando eseguivamo “Spirits of the Mountain”) giunsero a danneggiare l’impianto di amplificazione, i carabinieri del servizio d’ordine (come successe a Napoli) che ci chiedevano bacchette della batteria e plettri come fossimo una grande rock band (un bel salto rispetto a quando nella nostra città ci fermavano chiedendo se eravamo drogati, no?), il festival di Pavia dove un grandissimo Paul Chain stette per tutto il concerto a regolare il volume dell’ampli da chitarra che altrimenti fischiava come un dannato. Tutti ricordi bellissimi.

Ancora qualche anno, i dovuti cambiamenti a livello di line up con la formazione ridotta a tre elementi, e il secondo demo “Heroes in the Storm” vede la luce, ma a livello compositivo in che maniera nacquero brani del calibro di "Hurricane (I’m Free)" e "Shadow of the Axe"?... e se non è troppo, all'epoca avresti mai pensato di registrare un disco che oltre venti anni dopo sarebbe diventato un oggetto di culto per i collezionisti di mezzo mondo?
Dopo la lunga serie di concerti nell’84 e il grande scoglio dei vari servizi militari, ci fu l’ennesima scrematura: era destino, ma anche molto naturale, che negli SPITFIRE restasse solo chi credeva veramente nel progetto.
Così rimanemmo in tre: Giacomo Gigantelli alla voce e al basso, io alla chitarra e Gaetano Avino (unico membro fondatore originario della band) alla batteria.
Per me questa è la vera e più matura line-up degli SPITFIRE: ci eravamo fatti un grandissimo culo in quegli anni e i risultati si cominciavano a vedere, la tecnica era migliorata, le esibizioni erano più precise e pulite, stavamo crescendo.
E’ quindi stato naturale voler fotografare quel momento, registrando i pezzi che poi sono stati inseriti nel demo “Heroes in the Storm”, che raccoglieva sia brani vecchi, come “Merchants of Death” (una delle nostre canzoni che affronta l’argomento droga) e “Heroes in the Storm”, sia brani appena composti come “Shadow of the Axe”, “Hurricane (I’m Free)” e “Stones of Venice”. Il tutto ovviamente riarrangiato per una formazione a tre, e finalmente con uno studio più accurato sui suoni e una grinta accresciuta dal tempo passato on the road. Vivevamo questa avventura in uno stato di perpetua eccitazione, quindi non ci siamo mai posti il problema del futuro: facevamo al meglio quello che c’era da fare, in maniera molto istintiva, non abbiamo mai pianificato nulla a tavolino. Per noi la libertà personale e d’espressione erano una priorità, come abbiamo voluto evidenziare anche in alcune nostre canzoni del demo.

Un demo che presentava una serie di composizioni fresche e avvincenti che mostrano una vena epico/melodica, farà breccia nei cuori di molti appassionati dell’epoca…
Il demo “Heroes in the Storm” doveva essere inizialmente una pre-produzione per un possibile full-lenght, e doveva contenere in tutto una decina di brani (tra cui anche “Time and Eternity”, “Spirits of the Mountain”, “Escape from Babylon” che non poterono essere registrate per la cronica mancanza di soldi, e che poi fortunatamente abbiamo potuto registrare per il recente disco con la My Graveyard Productions).
Eravamo al top, duri e determinati, e con ancora un mucchio di idee in testa. Mancavano solo i soldi; e allora non era come oggi che un ragazzino di 16 anni può permettersi la migliore strumentazione, costosi corsi di perfezionamento musicale, per poi essere un mostro di tecnica, ma (spesso) completamente arido di quella fierezza e di quella passione sanguigna date dall’essersi guadagnato fino all’ultima goccia di sudore tutto ciò che si ha.

Un successo sempre più crescente, in molti all’epoca si sarebbero aspettati il grande salto di qualità, ed invece quello che doveva essere l’inizio di un sogno, si trasformò in una doccia gelata…

Alla fine le nostre scarse finanze ci permisero di registrare dignitosamente solo cinque pezzi, che però ben ci rappresentarono nella ricerca di un’etichetta straniera per un futuro album. Contattammo Rave-On, King Klassic, Metal Blade, Axe Killer, Concret Warrior e molte altre, ricevemmo un mucchio di complimenti e proposte, ma poca sostanza… i tempi si dilatarono e qualcosa stava anche cambiando nel mondo del metal e del rock… ci rendevamo conto che nell’ambiente tutto veniva recensito positivamente, come se non ci fosse più nessuna selezione critica della stampa nei riguardi dei gruppi metal, ci sembrava che si stesse appiattendo un po’ tutto il panorama attorno a noi, e non volevamo essere risucchiati da questo apparente immobilismo… cominciammo ad avere qualche “problema di identità”, valutammo perfino l’inserimento in organico di una tastiera… entrammo così in un periodo di relativa stasi.



Si, anche perché Giga tuo fratello di sangue si trasferì a Bologna alla ricerca di un sogno americano solamente paventato, tu invece?
Esatto, proprio in questa fase delicata della band, a Giacomo fu offerto di diventare la voce dei Danger Zone.
Ne parlammo e convenimmo che - vista la situazione - non aveva senso tenerci vincolati a un progetto che al momento non sembrava avere sbocchi immediati.
Quindi lui divenne il frontman dei Danger Zone e io, che non potevo stare certo con le mani in mano, mi sono aggregato all’amico Gianni Della Cioppa che stava riformando i suoi Exile.

Capisco, quindi come si dice in questi casi, sotto la cenere covava sempre il fuoco sacro dell’heavy sound…
Senza dubbio, ma anche di più, nel senso che io personalmente (ma anche i miei compagni) non mi sono mai posto limiti nell’esplorazione delle infinite sfaccettature della musica.
Per me suonare la chitarra significa essere tutt’uno con lo strumento, ed è questo il centro della mia vita.
Poi è chiaro che la mia cultura musicale è rock e si è formata con il metal. Ma non posso fare a meno di guardare al rock degli anni ’70, non ho potuto fare a meno di ficcare il naso nella cultura grunge dei ’90 e nel post rock/crossover dei 2000.
Ho ascoltato e suonato un po’ di tutto, perché penso che solo così si può avere un’idea ben chiara di ciò che si vuole fare, e di come farlo in maniera più personale possibile.
Nutro sempre un po’ di diffidenza per chi vuole a tutti costi imporre una fede, in qualsiasi cosa essa sia, perché il concetto di “fede” presuppone una sospensione della curiosità, inibisce l’uso della razionalità.
Io voglio conoscere di più, andare oltre, sfidare me stesso sulle molteplici possibilità dello strumento, per poi scegliere liberamente cosa mi piace fare. Non siamo mai stati gente che si trincera dentro un recinto e dice “Ecco, questo è il nostro regno e tutto il resto è merda”. Credo che si possa imparare da tutto e da tutti, con umiltà e sempre mantenendo chiara la direzione in cui si sta andando.
Per questo non saremo mai dei “defender”; spesso i kids lamentano di essere ghettizzati, dimenticando che anche loro corrono il rischio di limitare il proprio orizzonte escludendo a priori tutto quello che sta intorno. A me piace valutare tutto, cogliere insegnamenti da tutto, per poi adattarli a ciò che ritengo sia utile al mio cammino, e questo è lo spirito che ho portato in tutte le band in cui ho suonato, ed è lo spirito su cui si basa il rock che faccio sia con gli SPITFIRE, sia con gli EX.

Non hai mai pensato all’epoca che se fossi nato in un altro paese, diciamo la Germania, forse la tua vita artistico/musicale sarebbe, diciamo, cambiata?
Ma no, sono una persona molto realistica; ho imparato sulla mia pelle che più aspettative ci facciamo, più rischiamo di essere delusi. Il che non toglie che bisogna sempre assolutamente inseguire i propri sogni e fare di tutto per realizzarli. Se potessi tornare indietro o cambiare qualcosa, rifarei tutto uguale, anche gli errori, perché ovviamente anche da quelli ho tratto molti insegnamenti. In fondo le cose vanno un po’ come devono andare, e un po’ come le facciamo andare noi…

Ci vorranno più di tre lustri per rivedere il nome della band stampato su di un supporto digitale, grazie sempre ad uno dei vostri fan dell’epoca il già citato esperto discografico italiano, in un cd che raccoglie in un unico contenitore tutti i brani rimasterizzati e ripuliti…
Gianni è un vecchio amico e nutre tutto il nostro rispetto per ciò che fa e per come lo fa.
La passione che mette nei suoi progetti è un insegnamento per tutti, e lo dovrebbe essere soprattutto per i ragazzi che sognano di fare qualcosa nel mondo della musica, o comunque della cultura.
La storia del cd-raccolta “Heroes in the Storm” edito nel 2002 dall’Andromeda Relix comincia in realtà nel 2000, quando cominciai a spulciare nell’archivio di vecchie registrazioni analogiche degli SPIT e feci una cernita di materiale da digitalizzare.
Ne nacque un cd con i pezzi della discografia - diciamo - ufficiale. Questo cd fu poi recensito da una fanzine locale (Metal in Fabula), che scavava anche nel panorama rock veronese del passato. Tutto ciò fu l’occasione per aprire un discorso con Gianni, e così si arrivò alla pubblicazione della raccolta, che riportò in auge il nome SPITFIRE, con nostra grande soddisfazione.

L’interlocutorio “Live Reunion 2004” del 2007, oltre a mostrare l’affiatamento di un manipolo di ottimi musicisti, è il giusto viatico per il grande come back sulle scene di “Time and Eternity”, un titolo quanto mai esemplificativo…
Dopo l’apparizione estemporanea all’Italian Metal Legion Attack nell’estate 2004, insieme ad altre vecchie glorie del metal italico, auto-producemmo la registrazione del concerto, come sempre per il gusto di farlo, senza particolari progetti per il futuro.
Fu un’altro grande amico, Francesco “Running Wild” Campatelli, che ci pressò senza pietà affinché dessimo un seguito a quella improvvisata reunion, e ci presentò a Giuliano Mazzardi della My Graveyard Productions, il quale ci diede totale fiducia e si dichiarò disposto a produrre un album degli SPITFIRE.
Un album che non poteva che intitolarsi così, proprio perché la storia degli SPITFIRE è proprio sempre in bilico - positivamente - tra questi due estremi, ha ha ha!

Oltre ad un splendido lavoro d’artwork, il cd presenta un trittico di brani spettacolari come l'accoppiata iniziale "Spirits of the Mountain” e “One Night with Mephisto", “The Challenge” e lo strumentale “Escape from Babylon”; tutte composizioni odierne, oppure qualcuna di queste risale al primo periodo della band?
Tutti i pezzi di “Time and Eternity” sono stati composti tra il 1982 e il 1985; non abbiamo fatto altro che riprenderli in mano, eliminare qualche piccola ingenuità compositiva di allora, scoprendo via via quanto i brani scelti fossero ancora freschi e immediati, e quanto ancora ci potevamo identificare in essi.
E’ stato un vero piacere registrarli in uno studio, l’Opal Arts di Fabio Serra, che finalmente ha saputo cogliere e valorizzare la vera essenza della band, confermandoci che in fondo 30 anni fa avevamo fatto un ottimo lavoro; con il senno di poi, sarebbe stato un vero peccato che queste canzoni non avessero mai visto la luce ufficialmente.
L’artwork del disco è stato curato dagli amici della SlegoPiteco/Electric Temple, che tra l’altro da anni mi seguono in tutte le mie realizzazioni nel campo della musica, con mia piena fiducia, perché è gente che legge esattamente quello che ho nella testa (e ti assicuro che non è facile, he he he)!
Per la copertina invece abbiamo avuto l’opportunità di avvalerci di un’immagine di uno dei più grandi disegnatori fantasy del mondo, lo spagnolo Ciruelo Cabral, che tra l’altro ha fatto lavori anche per Steve Vai e Magnum.
Giacomo l’ha conosciuto e gli ha chiesto un’immagine per il disco, e lui è stato un grande: ci ha permesso di scegliere liberamente tra le sue opere più belle, l’ha pure adattata per le nostre esigenze e, con nostro grande onore, ha messo “Time and Eternity” nelle pagine dedicate alle cd-cover del suo sito ufficiale.
 


Qual è lo stato attuale della band? Siete in stand-by, oppure i vostri rispettivi progetti musicali con gli Ex da una parte e i Danger Zone dall’altra, vi hanno portato alla decisone di porre fine ancora una volta all’avventura Spitfire?
Come abbiamo avuto occasione di dire più volte, SPITFIRE è un’avventura a cui non verrà mai posta la parola fine; piuttosto vive di vita propria, imprevedibile e sempre pronta a manifestarsi senza preavviso!
Sì insomma, SPITFIRE è parte di noi, siamo noi stessi, quindi è impossibile porvi fine.
Ovviamente è un progetto che ha i suoi tempi e le sue peculiarità, un po’ anarchico se si vuole, ma che comunque convive da sempre con tutti gli altri nostri progetti musicali.
Al momento stiamo valutando alcune proposte che sarebbe prematuro annunciare… Probabilmente non ci sarà mai un album di nuovi pezzi, cioè composti ora, un po’ perché l’ottica del gruppo (che non necessariamente corrisponde a quella dei singoli componenti, proprio perché SPITFIRE è anche una “creatura” con vita propria) non prevede di essere forzati a fare ciò che non ci viene spontaneo, un po’ perché quello che singolarmente stiamo facendo con EX e DANGER ZONE risponde meglio alle nostre attuali esigenze (infatti per esempio io un album SPITFIRE di pezzi nuovi lo farei anche, ma cantati in italiano!).
Però, anche in questo caso, resta sempre il fattore dell’imprevedibilità, quindi non mi sento di escludere a priori nessuna possibilità per il futuro!

Prima di concludere quest'intervista, vorrei che ricordassi uno dei pochi miti che abbiamo in comune, ovvero lo spirito libero dell'indimenticato Yako De Bonis, tu che l'hai conosciuto, cosa puoi dirci di questo indimenticato screamer nostrano?
Mi è capitato di incontrare qualche volta Yako, in occasione di concerti, un paio di volte anche con i suoi Steel Crown e, anche se non lo conoscevo bene, ti posso dire che era uno che aveva dentro il vero fuoco del rock’n’roll, ma non solo: forse anche per l’area geografica di confine dove viveva, era una persona curiosa, un avventuriero, l’incarnazione del wanderer, ma con le idee molto chiare.
E’ da sempre uno dei nostri eroi, perché il metal italico ha senza dubbio il suo olimpo di eroi, in cui per sempre staranno lui, Fabio e Roberto Cappanera, e i molti altri che hanno contribuito a far crescere - non solo musicalmente - generazioni di rocker nazionali, quelli veri, che non sputano nel piatto dove mangiano.
Questi sono gli esempi che tutti dovrebbero avere sempre davanti, esempi di come la musica possa essere vissuta come uno stile di vita, e non come un qualcosa che le mode del momento ci impongono dall’esterno.




Ok Stefano, siamo veramente alla fine, ti ringrazio veramente di cuore per il tempo che ci hai concesso, vorrei che concludessi la nostra intervista nel modo che più ti aggrada.
Sono io che ringrazio te, anche a nome dei miei compagni di viaggio Giga e Gaetano, perché il metal italiano è fatto sì da chi imbraccia uno strumento e si fa il culo per fare uscire la propria musica, alla faccia dei milioni di teste di cazzo che vorrebbero schiacciarci sotto il tallone dell’ovvietà e dell’omologazione, ma anche da chi come te si sbatte quotidianamente per promuovere e supportare la musica indipendente italiana.
E non lo dico per compiacenza, chi ha vissuto sulla propria pelle il metal italiano degli anni ’80 sa che se i gruppi della NWOIHM sono stati per anni oggetto di culto soprattutto all’estero ancor prima della “riscoperta” qui in Italia, è grazie alle fanzine, ai metal-writer, a tutti coloro che ci hanno dato una mano a far sbocciare e crescere questo fiore d’acciaio.
Per il resto posso solo dire che la libertà personale - anche nella musica - è il bene più prezioso, e che quindi hanno tutto il mio rispetto le molte band che non si piegano a compromessi ma che perseguono con ogni mezzo l’affermazione della propria personalità, senza maschere, senza atteggiamenti ipocriti, senza soprattutto lasciarsi coinvolgere in inutili e sterili diatribe tra simili. E fuck off agli altri. Up the fire!

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